Intervista pubblicata sul sito Donna Sarda
Se io potrò impedire
a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano
Se allevierò il dolore di una vita
o guarirò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido non avrò vissuto invano”
Luciana Marotta è poco più di una bambina quando legge i versi di Emily Dickinson e li sente suoi, come tatuati nell’anima. Quella poesia raccoglie le emozioni di un cuore di bimba che sente dentro di lei un fiume in piena d’amore troppo impetuoso, perché il suo piccolo corpo lo possa trattenere.
Una vocazione che si tramuta in missione di una vita. Dal cibo che portava al barbone accucciato sotto casa, al volontariato negli ospedali tra gli anziani, fino alla creazione nel 1991 dell’Abos Associazione Bambini Ospedalizzati Sardegna che a Cagliari regala speranza e sorriso ai piccoli pazienti dell’ospedale Microcitemico e del SS.Trinità, reparto di chirurgia pediatrica. «Sentivo dentro di me il desiderio di aiutare i bambini, come un’onda luminosa che non riuscivo a fermare», racconta ripercorrendo a ritroso questi intensi ventiquatrtro anni, sempre in prima linea dalla parte dei più piccoli.
È un’esperienza in ospedale, dopo un incidente, che la porta a respirare la solitudine che scorre lungo i corridoi sterili e dentro i reparti in cui si annusa disinfettante. Sensazioni indelebili che faranno di lei una pioniera del volontariato sardo. Non esisteva, infatti, al tempo, nessuna associazione che si occupasse dei bimbi in ospedale, un vuoto che avrebbe potuto scoraggiarla. Luciana, invece, colma quell’assenza e insieme a un gruppo di amici crea l’Abos. «L’inzio non è stato facile – ricorda mentre parla seduta nella sala accettazione del Microcitemico – ho affrontato fatica e difficoltà. Tutti chiedevano perché lo facessi se non avevo figli malati. Ancora oggi capita che mi chiedano quale interesse nascosto o trucco ci sia dietro l’Abos». Nessun inganno. Era ed è solo voglia grande, grandissima di donare, un’esigenza spontanea, elementare e nient’altro.
Luciana portava i figli all’asilo e nel tempo libero organizzava le giornate, perché l’associazione carburasse e crescesse. Tanta diffidenza al principio e barriere che sembravano impenetrabili da oltrepassare. Neanche i dottori riuscivano a capire e i genitori erano pieni di sospetto. Alla psicologa dell’ospedale che le aveva chiesto perché voleva fare volontariato proprio coi piccoli pazienti, aveva riposto con l’unica motivazione possibile: “L’amore per i bambini. Sono qua perché vorrei fare qualcosa di utile per loro”.
Luciana si era presentata senza filtri com’è ancora oggi: una mamma e una donna che deve sempre trasformare l’urgenza di donare trovando il giusto percorso e le soluzioni per aiutare i bimbi a trovare sollievo. E da quel piccolo nucleo, ora l’Abos ha una solida rete in cui convogliare mille e più risorse. 150 volontari che aiutano, il 90% sono giovani donne che dedicano tre ore settimanali del proprio tempo per alimentare questo perenne circuito energetico di calore che scalda il cuore, regalando gioia e conforto. La terapia del sorriso e i momenti ludici e ricreativi sono poi, ormai, riconosciuti anche dalla medicina ufficiale come valido supporto alle cure.
«Il prof.Bollea, grande neuropsichiatra infantile, ha sempre asserito che il gioco fosse indispensabile per condurre alla guarigione. A volte si tende a vederlo come un qualcosa in più, è invece fondamentale, quando il bambino è in ospedale». I piccoli degenti affrontano un periodo critico della loro vita: vengono staccati dalla le loro certezze, rinunciando alla “normalità” di famiglia, scuola, amichetti. Col gioco e la creatività ritrovano un pezzettino del loro essere bambini che gli consente di cercare di superare le difficoltà trovando nuove risorse. Anche l’ospedale così si illumina e profuma di buono, diventa intermezzo più dolce nell’attesa che porta al ritorno alla vita di tutti i giorni. «Sono fieri dei disegni e dei piccoli lavoretti che fanno. Anche i fratellini vogliono venire ad aiutare».
La sala giochi è al quinto piano. Un regno colorato coi cuscini a forma di coccinella, i collage alle pareti e i tavolini imbanditi di cartoncini e pennarelli. La sofferenza c’è. È in fondo agli occhi, nelle mascherine color menta che coprono il sorriso e raggrumano il cuore, ma dentro questo luogo quasi sospeso, la serenità cattura il dolore e lo spinge oltre la porta. «Bisogna coinvolgere i bambini in momenti sempre nuovi. Alterniamo puzzle, giochi di società e da tavolo alla libera espressione creativa. Facciamo una marea di cose».
Attraverso il progetto: “Regala un sogno a un bambino ospedalizzato”, l’Abos ha, poi, permesso ai bambini di donare le ali a desideri chiusi in un cassetto facendoli diventare realtà. «A un bambino abbiamo organizzato una mostra personale, a un altro abbiamo fatto incontrare il calciatore della Roma Francesco Totti. Sembrava una cosa impossibile, invece ce l’abbiamo fatta. Il bambino poi è stato accolto a Trigoria dove ha conosciuto la squadra e ha visto una partita allo stadio Olimpico. Abbiamo procurato, per esempio, i biglietti del concerto di Violetta o organizzato un viaggio a una bambina e la sua famiglia in Tunisia, perché aveva nostalgia dei nonni». L’aiuto delle donazioni. Cinque per mille, bomboniere e pergamene solidali permettono all’associazione di avere il supporto economico per andare avanti. Ma il lavoro più prezioso e intangibile è quello dei volontari che mattina e sera si alternano in ospedale. Fantasia, amore e voglia di giocare sono le tre doti essenziali che deve avere un volontario, in cambio vive istanti che trasformano. «I momenti passati qui dentro arricchiscono. Se non si prova, non si può capire cosa sia». Anche paura e timori si dissolvono, quando i bambini conquistati, ricambiano con gioia.
Altro scoglio da superare è contenere il coinvolgimento emotivo, perché l’ospedale è un micro cosmo che risucchia e assorbe energie vitali. «Pian piano ho imparato a distaccarmi. All’inizio ero convinta che più mi concedevo e più facevo bene, ma sbagliavo». L’amore invece deve essere soffiato delicatamente, perchè i bambini hanno una famiglia e non si può invadere con irruenza la loro sfera affettiva. Entrare in punta di piedi nelle loro vite insegna a gestire l’emotività e a proteggersi dal dolore quando capita che qualche bambino voli in cielo.
I piccoli pazienti sono, però, sempre giovani leoni. «Cosa insegnano i bambini? A non dire mai fine. Non si arrendono mai, neanche quando stanno male, hanno questa forza di reagire, di voler sempre andare avanti, è la stessa forza che hanno i genitori attaccati alla vita fino all’ultimo».
Momenti indimenticabili da cui c’è sempre da imparare, si alternano a giornate tristi e un pizzico, a volte, di scoramento. «È un lavoro molto complesso, perchè la burocrazia uccide. Se il volontario può decidere di interrompere il suo lavoro, per me è diverso. Dipende tutto da me, non posso tirarmi indietro. Molte delle energie le ho sottratte alla mia famiglia. Mi sento un po’ in colpa per questo, infatti chiedo sempre scusa».
Luciana Marotta è la mamma dell’anno 2015, tributo che l’Admo assegna ogni anno alla mamma che più si è distinta per generosità e impegno nel sociale. Premio che ha dedicato ai suoi tre figli per tutto quello che pensa di aver tolto loro. «Quando mi chiedono quanti figli hai? Dico quattro. Tre in carne ossa, più il quarto: l’Abos».
Una mamma si ferma mentre parliamo e l’abbraccia. Gli occhi di Luciana risplendono, velandosi. «Ne è valsa la pena, avevo 38 anni quando ho iniziato e lo rifarei ad occhi chiusi».
Luciana è una donna sarda coraggiosa e orgogliosa delle sue scelte, ha sfidato quei muri asettici introducendo il gioco in ospedale, buttando giù tutte le barriere con la sua costanza, dimostrando determiazione coriacea giorno dopo giorno. «Siamo qua a Natale, a Pasqua e a Ferragosto, ci siamo sempre».
Una semina preziosa che germoglia come in primavera. E le parole di quella poesia l’accompagnano, mentre ci guida verso all’ascensore con una certezza, Luciana non vive invano.
Articolo disponibile sul sito LA DONNA SARDA